giovedì 27 giugno 2013

Oja

Tornavi a casa con i sandali ai piedi e i piedi bagnati. Era mercoledì e alle dieci in punto era scoppiato un temporale sguaiatamente estivo. I fulmini sferzavano alberi e cemento e tu tornavi a casa col piacere e il rimpianto di tornare, di fendere l’aria anche tu, con un adagio di tuoni nelle orecchie.

Sei sempre nel vortice, che senza forse non sai vivere, forse proprio non ci sai stare, come fossi tu stessa un vortice di oggetti casalinghi, come quando ti arrabbi, come adesso, che vorresti stringere le mani alla gola di qualcuno e fargli uscire le lacrime da tutte le parti, ma non sul serio.
È una metafora.
Una metafora di soffocamento, di bolle e oggetti casalinghi strozzati in gola, di te che da quando ti conosco non hai potuto fare a meno di stupirmi, per confermarmi alla fine che, tutto sommato, le cose vanno come devono andare. Di corsa, in tutte le direzioni, e sbattono ovunque come dentro una lavatrice, dentro un vortice e guardano gli effetti di una magnifica forza inaspettata.
Non è importante che sia distruttiva, perché tu fai tutto con enorme grazia, disfi tutto con certi movimenti benedetti e pieni di luce, e non importa se allunghi la mano per prendere, dare o allontanare, perché lo so che tu appartieni solo a te stessa, che dici di amare la solitudine, ma non sul serio.
Vorrei piegare il tempo, interferire col passato e fregarmene delle conseguenze, bruciarmi, tagliarmi, non avere più famiglia, e tutto questo solo per rivederti allora, quando aprivo la porta di casa e tu eri lì dietro, con gli occhi spalancati e certe volte con un barattolo stretto in mano. Poi, non so cos’è successo e i tuoi occhi si sono fatti più taglienti che rotondi.
Io ho iniziato a collezionare barattoli, anche se tutti mi prendevano in giro, e poi mercoledì sera, quando è scoppiato il temporale, Daniela è stata qui.
Anche questa è una metafora, non devi cominciare a muoverti per forza, non c’è bisogno di occupare nessuno spazio per girarci dentro, è stata qui ma non sul serio.
L’ho sentita sulle labbra, col collo piegato e gli occhi chiusi, i capelli lunghi e scuri raccolti su una spalla, a Koln con una camicia bianca.
La pensilina sotto cui aspetti l’86 non regge la furia dell’acqua che morde le superfici orizzontali. Tutti si stringono al centro per sfuggire allo scolo che cade nei buchi, quelli coi contorni irregolari che svuotano la pensilina di senso. Al centro ci sei tu, tu sola, a parte la tizia grassa che rimane seduta con le spalle bagnate e la faccia nervosa, da cane, con le guance cascanti. E così sei di nuovo dentro il mucchio, al centro del vortice umano, urbano di carne e di ossa, a pensare a me che sento Daniela sulle labbra e subito dopo aspetto te, aspetto di vederti arrivare piena di acqua e di notte.
Sono solo le dieci e mezza però il cielo s’è fatto più scuro che in una notte qualsiasi. L’acqua ha ristretto i vestiti e sbiadito la santità, la nuvole oscurano il nostro bersaglio verticale, la pioggia l’ha crepato a furia di batterci sopra, breve ma intensa.
Allora hai alzato gli occhi e ti sei stretta nelle spalle, le tue, quelle degli altri. Sei uscita sotto l’acqua, da sotto la pensilina, dal vortice in cui ti sei come risvegliata, come sempre, senza volerlo.
Quello che non va è che non ascoltiamo più molta musica.
Non ce n’è più, né fuori e nemmeno dentro. C’è il temporale, ma non è durato nemmeno un’ora e in ogni caso, io non me ne sono accorta, perché mi fischiavano le orecchie e Daniela non la smetteva più di chiedermi perché. E nemmeno io potevo smettere di farle le stesse domande. Non ha risposto e nemmeno io ho potuto parlare, perché l’avevo sulle labbra e non c’era spazio per nessun altro suono che non fosse il suo, quella della sua fronte sul mio mento e viceversa.
 Nei tuoi vortici ci sono entrata anch’io, sempre muta e con lo sguardo lanciato in alto, a rimbalzare in tutte le direzioni, prima che sulla porta di casa, dove sei apparsa tu, inaspettata.
Avevi i sandali in mano, lo smalto alle dita dei piedi.
Hai preso il 79 alla fine e io non me ne sono nemmeno accorta.

mercoledì 11 gennaio 2012

10/01

non attraverso mai la strada con leggerezza,
le strade di bucarest,
urla e silenzio.
c’era un vecchio sul bulevard che si specchiava nella
parete a vetri di un casinò e nello specchio
rifletteva lo sguardo di un incontro imminente.
occhi sgranati
stupiti.
si aggiustava la cravatta.
l’aria ha un odore aspro a fiutarla.
la fiuto a inspirarla, in profondità come un ingoio,
e te lo assicuro,
i cambiamenti sono masse di uomini
che sudano e sputano sangue.
(la frenesia dei cambiamenti).

venerdì 11 novembre 2011

Resa. il giardino sul 13° parallelo

Fronte alta. Pentimento. Occhi bassi.
Avevi le lenti a contatto ieri sera.
Occhi belli.
Il fumo te le seccavano sotto le palpebre, mi sembra. Non facevi altro che stropicciarti gli occhi ieri sera, ad ogni risposta, meccanicamente.
Un tic nervoso, oppure volevi scavarteli fuori dalle orbite.
Io scavo, tu scavi.
Lei scava una bella fossa profonda per buttarci dentro la roba vecchia, anche se di roba ne ha molta, anche se non ha davvero nessun senso sotterrare scarponi sfondati, magliette stinte, quaderni… non viene fuori niente in superficie, lo so io, lo sai tu, ma lei ha deciso che il giardino di casa nuova deve servire anche a questo. Depositarci le cose, restituirle in un certo modo dice. Come se fossero fatte di legno o d’acqua piovana.
Ha anche deciso di coltivarci il basilico e i pomodori.
Vorrebbe un bel giardino, mi ha detto l’altra volta, dopo che l’ho aiutata a finire il trasloco.
Un fatto non trascurabile essere l’unica ad avere la patente.
Un mucchietto di cartoni mezzi aperti. Vestiti, piatti, libri, bicchieri avvolti nella carta velina. Alla fine mi ha ringraziato con spiedini e vino caldo annegato di cannella, una pessima accoppiata.
Dopo cena ha cominciato a svuotare i cartoni, trascinarli e sistemarli senza mai togliersi i tacchi a spillo, inchiodando su e giù per casa la sua voce da lontano, che rimbombava nella mia. L’effetto delle case vuoto. Certi lo chiamano eco.
Vederla così, a calcolare lo spazio per i mobili, a trascinarmi per tutti gli angoli della casa -due stanze, cesso e cucinino in croce, a parlare di tende, colori e arredamento, quella volta me l’ha fatta quasi odiare, e sai che non ci vuole molto.
Che io e lei, a parte te, non abbiamo mai condiviso niente. E poi anche per te, non ti abbiamo avuto nello stesso modo.
E quanto ti amava gesù! Ti amava ancora a ottobre, quando vi siete rivisti, e anch’io ho amato quella sera. Stesso periodo, stesso identico posto, anch’io ti amavo ma tu, cazzo, eri solo capace di chiedermi scusa.
Però non è per dirti questo che ho voluto vederti Ion. Era per Anca e quel suo maledetto giardino. Mi fa pena.
Alla fine sta diventando una merda di cimitero, ci sta sotterrando tutto, perfino la fisarmonica. Io l’avrei tenuta quella, e per inciso - solo la tua ex poteva mettere sottoterra uno strumento musicale! Uno deve stare fuori di testa per sotterrare quasi tutto quello che ha, come una caccia al tesoro in cui non si vince niente.
Alla fine sono cose che qualcuno non ha più voluto.
Messa così in effetti non è tanto assurdo sotterrarle. Per lo meno gli dai un posto. È per questo che ho voluto parlarti, perché credo che tu debba andarci da lei, farti un giro in casa e uscire in giardino. E in giardino dovrai darti da fare Ion, perché quella roba è come se fosse tua. Non che sia roba tua, però ha a che fare con te, ed è meglio se te ne rendi conto, ed è meglio se vai da lei.
Io credo si sia arresa e che quello lì sotto è un bottino. E ora sto per darti una pacca sulla spalla perché hai un gran bel bottino, oltre agli scarponi sfondati!
Lo so, è da non crederci, ed è stupefacente, però questa è una resa.
È per qualcosa che mi ha detto - un contrappasso bestiale, diceva e poi un altro mucchio di sciocchezze sulla prima volta in cui ti ha visto e l’elettricità, l’istinto che non l’ha mai tradita.
Lo sai come sono i discorsi di Anca, e non è che io l’ascoltassi così attentamente o con piacere, intendiamoci!
Solo che, dopo il trasloco mi sono ritrovata il suo mazzo di riserva tra i tappetini dell’auto. L’avrò chiamata cinque o sei volte ma niente. Ero di strada, così ho fatto un salto a restituirle le chiavi.
Mi ha aperto stravolta, sembrava in acido. Stava scavando e sotterrando. E vuoi tirare a indovinare perché non rispondeva? In ogni caso, mi ha fatto un caffé e ce lo siamo bevuto osservando quel campo minato di fosse, ed era strano, pieno di sentimenti come se lì sotto riposassero per davvero delle anime.
E poi si è messa a parlare di te e di tutto quel dolore che non sapeva più dove stipare.
Rifiuto, distanza, chiusura. Questo era l’ordine se non sbaglio oppure forse c’era prima la distanza del rifiuto… in ogni caso, di colpo mi fa
- dimmelo tu, tu che faresti? Lo so, niente di tutto questo probabilmente, però mi va bene lo stesso, anche se sei tu. Tanto di quel dolore da non poterne più. Per tirare a campare che faccio, me lo dici?
A quel punto, senza fiatare, mi sono alzata e sono andata via.
Non l’ho nemmeno guardata. Non so che faccia avesse, che espressione.
Mi sono alzata e fissavo le tombe.
Vorrei saperlo se c’è un altro modo senza tutto questo dolore. Vorrei sapere come arrivarci, con chi parlare per arrivarci, che farlo con me - cercare in me la direzione, è fiato sprecato. Lì c’è solo dolore, certe pietre miliari sporche di piscio e piene d’erba tenera come sulle provinciali. Le strade provinciali del Lazio, ad esempio. Io sto pensando a quelle, anche se è un riferimento che tu non puoi cogliere.
E allora avanti, si cerca di andare avanti e immaginare altri riferimenti, oppure lasciarli perdere completamente, che alla fine sono inutili tutti. Qualcosa di nuovo aspetta la mia nuova vita a Bucarest, che allora diventerà nuova di zecca, fiammante. Sarà per questo che poi in auto sono scoppiata. A piangere sono scoppiata, di paura come un neonato.
Di misura, perché non è ancora passata.
Perché va sempre peggio.
E mi allontano sempre di più. Da me. Da te e poi da tutto il resto.
É per questo che l’ho lasciata lì, perchè non posso capirlo da sola come si fa a non soffrire così tanto. Se lo sapessi, pensi che non lo farei? Se bastasse chiederlo a me, pensi non l’avrei già fatto? Sei pazzo, credi non l’abbia già fatto?
La mia natura non è uno scherzo.

sabato 29 ottobre 2011

Tutto quello che arrivi a capire

Sara L. usciva di casa sempre in anticipo. Una tipa precisa.
Parole misurate, gesti corti, sguardi attenti.
Una donna a cui non piacciono i complimenti, che teme i fraintendimenti e le promesse non mantenute, anche quando si fa tardi, troppo tardi, e tempo per le spiegazioni non ce n’è più. E nemmeno la voglia.
E nemmeno lo spazio a dir la verità, anche se la famiglia L. continua ad incontrarsi ogni domenica fuori città, l’intera famiglia raccolta intorno al tavolo, intorno al cibo e ai pretesti di sangue, a raccontarsi successi e sfortune della settimana appena finita.
In questa storia, Sara L. ha 34 anni, un lavoro e un ex marito.
È sabato mattina e la città sta ancora dormendo, oppure rincasa, barcolla per la strada, ride, prende un taxi, insomma, per lo più quello che ti aspetteresti da un venerdì notte metropolitano. E il cielo vira dal viola all’azzurra. E l’aria è gelida. Così gelida che taglia la faccia a Sara, appena uscita da quel portone che le sbatte alle spalle.
In questa storia non succede niente e nemmeno gli imprevisti fanno più la differenza, e comunque Sara esce presto ogni mattina. Nemmeno una notte passata con uno sconosciuto fa più la differenza. Si tratta di semplice cronaca, misera cronaca di noia, amicizie, lavoro, bottiglie svuotate, sigarette svuotate, incontri casuali per l’appunto. Casualità della notte scorsa.
Sara ride. Sara beve. Sara balla i grandi successi degli anni ’90 post comunisti.
Sembra se la sia spassata la notte scorsa, venerdì notte passato al ClubA, vale a dire nella scappatoia cuba libre a 6 lei, poca luce, molta gente, molti cuba libre. Nulla di nuovo in realtà, però l’aveva deciso all’improvviso. Era andata così:
sei mesi prima Sara conosceva Constantin, un magrissimo, ironico e magnetico personaggio. Un casco di riccioli e voce fastidiosa, postura da bevitore, senso dell’umorismo. Sara rimane fulminata. Constantin è impegnato con un‘altra, storia quasi finita però. Lei lo vuole rivedere. Lui è introvabile e schivo come un randagio. Però due mesi dopo, all’improvviso, ricompare. Non si sa perché, solo ricompare. A Sara non sembra vero. In effetti va tutto troppo liscio. Poi sparisce ancora. Definitivamente ‘sta volta. Poi arriviamo al venerdì sera, quando Sara entra nel solito DessBar, ma diversamente dal solito, seduto al banco e mezzo coperto da tre o quattro amici, c’è Constantin. Lei finge di non vederlo e va al banco a prendere da bere. Lui la vede, la saluta, occhi pieni, gioia di rivedersi. Chiacchierano un po’. A Sara scoppia il cuore. E allora si va al ClubA.
Ha deciso di dimenticarlo. Lo deve fare.
Perché sparire vuol dire davvero rifiutare. Perché è stato e ora può anche passare.
E allora avanti con i cuba libre e il sudaticcio attorcigliarsi di mani, di gambe, ed eventualmente anche di lingue in pista da ballo, a muoversi tutti all’unisono sui grandi successi degli anni ’90!
La cronaca può continuare, scontata e indisturbata fino al fragore dei vetri che sbattono mentre il portone si chiude, mentre Sara accende l’ennesima sigaretta che non ha più la gola né il fiato di fumare, mentre diventa vera la storia del sesso con uno sconosciuto, vera ancora una volta, una volta di più.
È successo davvero, è stato e ora può anche passare, essere dimenticato come tutto quello che non conta. Come quello che conta.
Lei stava solo ballando quando Nick le si è avvicinato. Pensa un po’, uno straniero!
La cronaca può continuare con gli attorcigliamenti di cui sopra, a cui segue l’espressione di Sara che stira un sorriso quando Nick le dice che sembra più giovane -la domanda sull’età arriva sempre, si chiama calcolo delle possibilità.
Nick è liberiano, parla inglese e vuole fottere. Le offre da bere e in romeno è solo capace di dire che bella ragazza sia Sara. Patetico. Semplice.
Ancora avanti, fino a quella lucky rossa fumata con leggera nausea, e quasi finita alle otto del mattino, l’ora in cui Bucarest scricchiola e i taxi sono liberi. Ora anche Sara monterà su un qualche taxi e in poco sarà a casa, scivolando sulle strade senza traffico del sabato mattina.
Tornerà a casa e farà colazione, ancora un’altra sigaretta sotto le coperte e sentirà quel vuoto speciale post occasionale.
Soprattutto, avrebbe pensato ai baci di Nick, morbidi di labbra africane, e al nulla assoluto che sentiva mentre anche lei lo baciava, fingendo coinvolgimento, per alimentare il gioco. E dopo aver spento l’ultima sigaretta prima di dormire, con la luce fuori e tutto il resto, avrebbe ricordato che mentre era lì, tra quelle labbra sconosciute e la folla, tutto quello che voleva era Constantin. Tutto quello che arrivava a capire era Constantin.
Amore o ossessione non era così importante, non ci pensava neanche più, che con i pensieri lo consumava l’amore, a immaginarlo, a farci i conti con l’amore.
D’altra parte, come le diceva spesso Laura, il bello della vita è esattamente quello che non sai e, banale ma vero, le infinite variabili. E anche se restava la nausea a ricordarle da dove veniva, Sara era ancora in taxi e fino a casa aveva almeno altri 5 minuti.

lunedì 10 ottobre 2011

ho capito che iniziava a settembre

Re-zare
fuori di qui di giorno come di notte
tutto succede diversamente.
ho sognato di non capire
e il ticchettio della pioggia sembrava
infinito.
ho sognato di capire
di poter almeno intuire i lineamenti di
carne sotto il lenzuolo.
scrivo di te, leggo di te
in me
entri ed esci attraverso
me
esisti in movimento
in lontananza
e Bucarest
non mi è mai sembrata così bella
fatta a pezzi
ora
da te.
fuori da qui c’è tutto il resto
tutto quello di cui non so.




Scrum

ogni sera sono sempre l’ultima
a spegnere la luce.
i miei pensieri gli ultimi a chiedere la porta.





Scrum*
con la luce alle spalle
sono solo una sagoma -mi riduco
proiettata sul muro.
senza profondità scivolo in ogni direzione
e mi scompongo.
senza profondità, senza attrito
senza attrito contro il bianco.






Greata
ho un dannato male di vivere che
mi sporca i sogni i pensieri
il risveglio.
sono diversa come sempre lo sono stata,
sulla testa un notturno di Chopin
nella testa solo il senso
del rifiuto.
ed è un rifiuto quotidiano,
indimenticabile,
nauseante.




Indepartare
lontana da tutto in un letto sconosciuto
sono l’ultima creatura a cui
arriva il tuo pensiero.
dopo un viaggio l’ennesimo viaggio
alla fine del quale nessuno
mi aspetta, tu
sei l’ultima creatura a cui
arriva il mio pensiero
il guscio
per qualcosa che quasi non pronuncio più
per paura che mi cada la lingua

martedì 13 settembre 2011

FoarteCute

Adrian era uno di quelli che ancora parlava di borghesia e passerelle sociali, con una memoria bestiale e mai carta assorbente in casa.
Quando dico carta assorbente parlo di tovaglioli di carta, fazzoletti di carta, carta igienica. Se ti scappava a casa sua te ne assumevi la responsabilità e non perché pulirsi il culo è da borghesi, ma semplicemente ci sono diversi tipi di memoria.
Diceva di aver smesso di bere. E diceva anche che di notte, ogni notte in cui ce ne andiamo a letto a dormire, facciamo un salto nel tempo, una regressione uterina. Niente metafore o porcherie amniotiche come pensavo all’inizio, perché quando Adrian dorme profondamente si rimpicciolisce per davvero. Una ciambella in mezzo al materasso. Un feto in un certo senso.
L’ho guardato dormire per un bel pezzo quella volta, che poi è stata anche una delle ultime in cui mi ha detto che da lui di letti e divani vuoti ce n’erano tanti, neanche fosse stata una reggia quel bivani di Pipera in cui stava, nella zona industriale della città. Avevamo cenato insieme, visto un paio di film, fumato, parlato.
Diceva che da piccolo era stato uno di quei ragazzini innamorati della madre, a cui mancava letteralmente il respiro quando la guardava muoversi, agire, vivere. Un po’ come capitava a me quando mi era accanto, quando eravamo a letto insieme, in silenzio e sincerità. L’ho amato, almeno quella notte a Pipera l’ho amato.
Però non ha mai avuto molta importanza o molto senso, come non ne ha amare uno che quando dorme si arrotola fino a baciarsi la punta del pene e non lo lascia fare a te. E poi non ti lascia nemmeno spazio a letto, il più autoreferenziale possibile. Il più contenuto possibile, uno che ti bacia sulle labbra, con quelle belle labbra rotonde e imbronciate, e poi sparisce per settimane.
Poi a un certo punto sparisci anche tu un paio di settimane, per qualche settimana, in viaggio, e anche a te manca la carta assorbente, un pacchetto di fazzoletti per esempio, più che sufficiente quando ti scappa in treno.
Quello che mi manca è un ponte. Una volta l’ho trovato, un bel ponte alto che all’inizio aveva entrambi i capi invisibili, impossibili da riconoscere fino a quando non l’ho abbandonato per lanciarmi di sotto, il ponte di gesù cristo. Sono ancora qui a raccontarlo, ed è stato un volo, una caduta libera che mi ha sfracellato all’atterraggio. E sono ancora qui.

_______________

Quello che mi manca è un ponte, un bel percorso dritto che mi porti fino a Pipera senza le congestioni stradali di Bucarest, le congestioni stradali che non esistono quando sei in treno, perché in treno c’è Mihai.
Perché in treno c’è l’inesauribile serbatoio umano in cui si affollano le altre vite, vite diverse dalla tua.
Mihai ha trentasette anni, una camicia bianca e una valigetta nera da PC portatile, perfetta per restare dritta in verticale sotto il sedile, dove la lascia subito, appena prende posto di fronte a me, a treno ancora fermo. Vado a Braila e anche Mihai ci va, per 4 ore che sembrano infinite.
Mi dice qualcosa prima di lasciare la valigetta, qualcosa che non capisco. Ha la voce bassa, come rotta, come avesse passato la notte a gridare. Ha quel timbro di voce speciale, grave e impastato. Suadente, attraente. E quando parla sbatte le palpebre a lungo, come a filtrare le informazioni attraverso gli occhi, con gli occhi assicurarsi di aver capito, che ho capito cosa dice. E di cosa ne dice tante, strane, equivoche. Mihai parla come fosse un contrabbandiere (di automobili, pneumatici, alcool, c’è da immaginarsi un mondo sommerso) e allarga il sorriso quando confessa di parlare russo, per le russe e per la Trasnistria, l’arsenale nucleare dell’URSS mummuficata. E quella valigetta che non sposta più dal suolo, incastrata saldamente tra il sedile e il pavimento, che controlla di continuo, discreto, nervoso, senza sudare, come se potessi non rendermene conto. Siamo uno di fronte all’altro e Mihai mi sembra un uomo capace di chiedere scusa con serietà e rispetto. Un tipo losco malato di reni.
Quando scendo è come se non l’avessi mai conosciuto. Sono sola e di notte la stazione di Braila fa paura. Per quanto banale, è terribilmente triste scendere da un treno e ricordare che non ci sarà nessuno ad aspettarti. In ogni caso sono appena le dieci di sera.
È difficile non vuotare il bicchiere con la sete e il vuoto che ho.
La luna stanotte è davvero quell’enorme disco bianco a cui tutta la scrittura umana ha dedicato due parole, nella grandezza piatta dello spazio aperto, delle fronde infinite che allungano il Danubio.
È difficile descrivere le città secondarie sulla strada per Bucarest, con i teatri chiusi, le combinate in disuso, i mazzi di covrigi appesi alle braccia delle madri dietro i passeggini, dietro le falde dei cappelli, calcati in testa ai vecchi che giocano a dama per strada.
Accendo ancora un’altra lucky rossa e tu Adrian, non sei altro che un mucchio di parole, una sconfitta, la forza che ci vuole per l’ennesimo colpo di spugna, di coda, di coccige, sotto una luna grande come non ne ricordo se non in Romania, il posto della maledizione sentimentale, personale, sentimentale.
Una luna enorme dentro il cielo rosa.
I miei sentimenti si fanno umidi prima di sparire, come la filettatura della cartina di cenere che lasci cadere sul fondo umido del piattino da caffè, gonfio di mozziconi. All’inizio non succede niente e poi di colpo, a bagnarsi si fa scura, si prepara a sparire, semplicemente, come cenere bagnata.
Vorrei scrivere di te come scriverebbe un cane, con il muso annodato tra le lenzuola di un letto che non potrò mai chiamare nostro, sniffandoti riga dopo riga, in attenzione.
E questo non è mai stato così vero.

lunedì 12 settembre 2011

09/09

L'autunno è arrivato tre ore fa e resterà
ancora un po' su questa piccola città a forma di quartiere
e colori da villaggio.
e un corpo femminile a far-mi desiderare
a muoversi dietro tutte le
pareti di casa,
nel mio,
in silenzio
come un cane che cammina tra i tavoli di una terrazza
all'aperto
e la luna
perfettamente sbiancata

o după-amiază
caldă
și
limpede
cu tine