domenica 28 agosto 2011

notturne**

di spalle sono
spalle larghe, scapole sporgenti.
spigoli stretti, sempre più stretti
e più degli avanzi
lì non c'è niente,
solo i resti ci trovi. quello che siamo in fondo.
quando mi hai toccato
quando ti ho sentito
era caldo come lo eri tu,
in un abbraccio banale,
in esplosione
una mattina d'estate



così vuota come sono, posso solo
rubare, solo posso ossessionarmi.
talmente piena da essere autosufficiente,
come se -io- potessi bastare a me stessa.
in orizzonatale potrei.
e nessuna paura del rifiuto.







venerdì 12 agosto 2011

Biografismo contagioso. (meglio un eritema che una scivolata sul ghiaccio)

Ci siamo incontrati alla pensilina del tram 16, proprio sulla curva della rotatoria M. e abbiamo iniziato subito a camminare verso est. Saluto breve, una smorfia per sorriso e poi via, le gambe partono alla nostra sinistra, ostinato est della città dove ci sono gli appartamenti migliori, i prezzi più bassi e i proprietari più pigri. Ma d’altra parte in questa vita cosa non ha a che fare con la pigrizia?
Amo la fotografia in bianco e nero perché mi sembra conservi una morbidezza che nemmeno il modello aveva in principio. Solo il mio occhio destro l’aveva, anche se non c’è niente di pigro in questo.
Continuiamo a camminare, io e il Fosco, e in mezzo a noi un mucchio di discorsi interrotti che per un pezzo non avremmo più ripreso e che ci fanno andare piano in mezzo ai tonfi dei nostri passi. E poi ci sono quasi 40°, l’asfalto è morbido e noi abbiamo i piedi di piombo.
In ogni senso, li abbiamo di piombo.
All’inizio era diverso, ed è scontato che lo fosse. Lui tutto preso da dettagli e sintonia, con quella voce calda, lo sguardo raggelante e la libertà feroce. Io per lo più sbattevo le palpebre raggelata e giù tutto il tempo a chiedermi se non fossi troppo poco. Per cosa, per chi non ha molta importanza. In ogni caso era primavera ed ero ben disposta.

All’inizio era un inverno freddo come pochi, con i riscaldamenti che funzionavano male e un noioso futuro ex che cercavo di comprendere su base antropologica, dalle fondamenta. È anche vero che non c’era poi tanta struttura su quelle basi, e la metafora ingegneristica alza solo un bel polverone, oltre il quale c’era un ex ballerino di tango imbolsito con la pelle liscia e uno speciale effetto soporifero tra le lenzuola. Si lo so… infatti ho detto ex ballerino. E poi che vuoi, letti e cuscini sono fatti per dormire, uomini e donne per rincorrersi (anche se il mio amico Psicologo direbbe per accoppiarsi) e la terra per girare, e mentre il qualunquismo a buon mercato mi offendeva i pensieri, una sera ho conosciuto Dan.
Era sempre lo stesso inverno, la stessa infinita quantità di neve a cadere e coprirci tutti, e Dan e io ci ritrovammo sedute una accanto all’altra sulla moquette verde delle poltrone del Teatro dell’Arte, quello nel centro vecchio, un paio di chilometri più su della rotonda dell’inizio. Posti 14 e 15 terza fila, vale a dire nel bel mezzo di una folla rumorosa, accomodata, accaldata e costretta a tenere le gambe incollate allo schienale di quello d’avanti. Vale a dire, nessuna chance di libera uscita bagno-sigaretta, bagno-acqua.
Dan(a) è bella, egoista, cilena. L’ho scoperto solo dopo che era cilena. Il resto rimane.
Siamo sedute lì e le luci di sala proprio non vogliono spegnersi, la temperatura comincia a farsi interessante, soffocante l’aria, piena di voci e fiati. Accanto a noi, qualche poltrona più giù alla mia sinistra, una donna che cerca di tenere a bada un bambino:

“ … e stai giù, stai giù ti ho detto! dai, che tra un po’ spengono le luci… shhh... Andrei per favore…”
Il piccolo Andrei vuole alzarsi, cerca di alzarsi, fa il matto per alzarsi e correre via, poveretto!
“ … Andrei!” Con una rapidità inaspettata la donna afferra Andrei per il collo della T-shirt giusto in tempo, quando il nano già quasi se l’era filata scivolando tra piedi e piedi.
La fallita evasione mi angoscia un po’.
Il biglietto per il teatro l’ho avuto in regalo da una delle mie studentesse di francese, quindi ho pensato che non ci perdevo nulla a venire, anche se nemmeno ci perdevo il sonno, che anche casa o una birra con qualcuno la rimediavo… respiro profondamente con la testa ancora rivolta alle gioie della maternità. Dan respira anche lei accanto a me, stessa intensità, quasi lo stesso tempo di emissione. Mi giro, la guardo. Sorrido. Anzi sorridiamo in due, abbiamo gli stessi dubbi.

Tutte le voci in circolazione nell’ambiente (bel panierino claustrofobico pieno di gelosie, appartenenze, antipatie. Meglio non fidarsi), che volevano il drammaturgo Mark W. sull’orlo del collasso creativo erano vere. Lo spettacolo è una catastrofe di noia, così noiosa che quando è successa nemmeno l’ho notato.
Dan paragonava questo tipo di flop artistici al sesso scadente. Tutta questione di performance e stile. Di occasione per l’appunto. Una sola possibilità e te la giochi (altamente consigliato: sputare la gomma, spegnere la TV, concentrarsi un attimo), se vai a segno magari ci si rivede o no. Occasionale, come dicevo, in molti sensi. Di sicuro ti aspetti che sia piacevole, divertente, magari anche soddisfacente -che non guasta mai, un tempo ben speso che ti faccia scordare l’imbarazzo del pelle a pelle con lo sconosciuto del caso, di cui ignori tutto o non vuoi sapere più nulla dopo. Con Mark nessuna intimità, ma la mia soddisfazione è stata quella cilena, mia a partire da quella sera, mia ma senza alcun possesso reale.
Una tipa strana, rara, un dosso chiodato alto 15 cm sulla discesa del garage di casa tua, e pensare che per me non l’aveva nemmeno un corpo.
Parole. Tante. Sopra le altre di ieri, sopra quelle della settimana scorsa e su altre parole ancora.
Ho letto da qualche parte che le parole non sono mai abbastanza per niente e nessuno, però io e Dan ce la spassavamo un mondo a ironizzare su tutto e tutti, a bere forte o non far nulla, a costruirci un mondo di richiami in cui prendersi quasi per niente sul serio, e io dico che senza quel quasi ce la saremmo spassata ancora per molto. Nel concreto e tra le varie, c’era un’affinità turbativa di natura patologico-sentimentale tra Dan e me, com’è patologico il bisogno costante di emozioni forti per capire che ancora sei vivo, che campi e lo fai bene perchè te ne accorgi.
Insieme abbiamo riso e pianto senza mai toccarci, come fossimo state sole.
Poi vai a scavare e scopri che, accidenti, siamo donne, come dire creature quasi incapaci di prendersi poco sul serio, e che, caspita, il bungee jumping non è poi un’emozione così forte come pensavi, di certo non come quell’altra, quella che si preferisce non nominare per non essere ancora più donne, più deboli, più fradice di sentimenti.
Dopo natale (la strenna natalizia era proprio fare bungee jumping) qualcosa cambiò. Banale lo so, e sto per dirlo esattamente in quel mondo lì, abusato, già riconosciuto come “e quel cambiamento fu un uomo”.
Un uomo bruno con un nome strano, una strana essenza grigio-brillante come la scocca viva di una navicella spaziale aliena. Un’architettura complicata, moltiplicata in saloni, solai e sotterranei, botole e stanze di specchi in cui moltiplicare tutto il resto ancora una volta. Noi però eravamo solo due e tra tutti quei corridoi e uscite d’emergenza, ognuna si scelse l’angolo adatto in cui accomodarsi e non era una matrimoniale, tanto meno per tre. Eravamo in lui, gli eravamo dentro, e anche lui aveva un posto, solo suo, dentro ciascuna di noi. Il soprannome di Fosco se l’era scelto lui una sera, quella sera all’inizio di marzo in cui iniziava anche la mia terza settimana analcolica e lui si presenta a casa mia senza preavviso con una bottiglia di rum.

“Ci riscaldiamo bellezza…” mi fa ancora sulla porta e sorride. Gli faccio cenno di entrare, sorrido anch’io e penso che amo le sorprese. Poi metto a fuoco la bottiglia.
“Non te lo ricordi già più che non sto bevendo?”
“Ah già…” fa un po’ deluso mentre strappa il bollino di carta del monopolio e svita il tappo metallico “… e hai detto che sono due settimane, no?”
“Tre. Oggi inizia la terza settimana. Ragiono come una donna incinta?”
“Alcolisti anonimi?” ribatte il Fosco, sedendosi al tavolo in cucina. Poi mi versa da bere “dai… che sarà un bicchierino? Mica hai problemi di alcool che devi stare a regime così, no?”

No, nessun problema. Semplicemente sostituire il tè al vino caldo o il caffé alla palinca per riscaldarmi e digerire, in tutta onestà mi sembrava il minimo. D’altra parte, gli inverni dell’est senza luce né profondità di campo, certe volte sembrano anche senza prospettiva, come il presente continuo di un letargo sempre alticcio in cui ti volti e rivolti nel maglione di casa e nei pantaloni di flanella a scacchi e tutto è perfetto così. Quasi perfetto e allora magari se smetto di correggermi le tisane ed esco a fare un giro ogni giorno, magari vedo posti nuovi, facce nuove. Magari esco dal letargo.
Dan era sufficiente ma anche le facce nuove non erano male. Quella che avevo di fronte ora per esempio, sebbene non fosse nuova di zecca, conservava ancora un certo fascino.

“No, nessun problema con l’alcool, a parte il fatto che pensavo di non bere”.
Sbuffa. Beve il suo, il mio e se ne riempie un altro. Accende una sigaretta, e lascia cadere il mento stretto sul palmo della mano. Mi guarda.
“E allora, che mi dici del ballerino? Ancora in circolazione o cassato?”
“Cassato. Da due settimane”.
“Come l’alcool?”
“Come l’alcool”.
Mi offre una sigaretta. La prendo e l’accendo.
“Per lo meno ancora fumi”.
“Per lo meno”.
“Però niente ballerino?”
“Niente ballerino”.
Forse a quel punto gli brillano gli occhi.
“Beh, per lo meno non ti sei fatta natale in solitaria!” fa e poi ride. Rido anch’io.
“Non è stato voluto, nessun calcolo giuro! E in ogni caso l’abbiamo passato separati, ognuno a casa propria. Io con i miei, pensa un po’…”.
“È l’idea sai? Sapere che hai qualcuno, che qualcuno ti vuole o ti vorrebbe accanto a scartare un pacco, a fare un brindisi, a baciarti a mezzanotte. Lasciarsi è una porcheria e a natale fa ancora più schifo!”

Sarà che a quel punto l’ho guardato strano, sarà che mi si è storta la faccia al ricordo lampo del ballerino che mi chiamava “principessina” e la mia voglia di bastonarlo, oppure la semplice verità di che schifo di tristezza sia separarsi da qualcuno che hai amato, alias solitudine. Non saprei dire cosa, ma di colpo il Fosco ha cominciato a parlare e non si fermava più. Mi racconta di quanto solo si senta, di quanto sia difficile essere liberi, ed è amaro quando lo dice, ed è fiero quando lo dice. Io per lo più sbatto le palpebre ad annuire, lo guardo e vorrei comprenderlo tutto e inghiottirlo con lo sguardo.
Le sue conclusioni sono chiare, dure e pure come il diamante, più veloci della luce, più forti e caotiche dei pensieri di cento uomini, o anche di un uomo mentre cerca di dire ho paura, ma ha paura a dirlo.

“Non è che me lo sono scelto, sono così. Sono un solitario io e mi piace, e poi certe cose non te le godi in compagnia. È la malinconia il problema. Mi frega la malinconia che mi prende e il fatto che non ho pazienza, che aspettare mi fa perdere le forze, come se mi consumasse. Quando voglio so aspettare però sono nervoso tutto il tempo, che fregatura!
Sono un tipo difficile io. Per me è tutto difficile…” fa e poi mi guarda di nuovo.
Lo guardo anch’io per un attimo, poi scollo il sedere dal ripiano di legno del mobiletto bar e mi servo un bicchierino dalla bottiglia di rum lasciata sul tavolo.
“Si, sei un tipo complicato e certe volte lo vedo anche se non dici niente o non fai niente”.
“Si, una specie di Tetris… come una strada che non si capisce dove inizia e dove va a finire”.

Un uomo complicato, come avevo appena detto, con le pareti interne annerite da tanti piccoli fuochi, affumicature incrostate da anni. Il nero era perfetto, anche se non gli davo un valore morale. Pensavo alla sabbia sollevata dal fondo che si gonfia nell’acqua di mare e a quanto suonasse strana in quel momento la parola morale. Poco chiaro. Temporaneamente oscurato.
Ed era così. Era fosco davvero, il Fosco. Era così che si sentiva, almeno quella sera.
Passiamo la notte in cucina a parlare e il mio respiro regolare ogni tanto si spezza se i nostri discorsi si fanno più vivi, se i nostri sguardi si incrociano troppo a lungo. Amo le piccole intimità.
Il resto è scontato, altrimenti quale sarebbe il motore di tutta la storia? E inizia con un avvicinamento del Fosco al mio lato del tavolo.
La settimana successiva la scena si ripete, ma con altre modalità, conseguenze, altra continuità. Dan era stata da lui.
Quella sera di marzo col pilota automatico, l’avevo dimenticato quanto Dan fosse bella ed egoista, come tutti quelli che bruciano l’esistenza e fiutano l’aria.
La mia bella cilena egoista.

Era fuori di se quando ha aperto quella lettera. All’immigrazione romena non le rinnovava il visto e Dan doveva essere fuori in sessanta giorni. La revedere scumpo e tanti saluti.
La posta di Dan la ritiravo io, cittadina europea fresca di domicilio a Bucarest, però quella lettera è stata l’unica importante che non abbiamo aperto insieme.
È entrata in casa senza dire nulla, solo ho sentito un ¿donde está? e poi dalla cucina in cui era andata a leggerla una valanga di putas y cojones y Romania de mierda, senza quasi prender fiato.
Non si era nemmeno tolta il cappotto e già piangeva e tirava per aria tutto quello che era a portata di mano. Piangeva come se fosse stata sola, ma di un altro tipo di pianto in un’altra solitudine, respingente, corazzata di cocci tenuti insieme con lo sputo.
E io nemmeno ho provato a toccarla, che non volevo romperla.

Come dicevo, dopo natale c’erano stati dei cambiamenti ma non era una tragedia. In fin dei conti lo sanno tutti, tra esseri umani è dura. Un’infinità di legami a unire le persone, a girare intorno al nucleo del noi due, in giochi di potere e corrispondenze leggere, di equilibrio. E l’equilibrio è uno che domina e l’altro che si lascia dominare. Se poi ti arriva anche il terzo elemento, allora devi proprio ripensare tutto oppure, in alternativa, lasciare che le cose avvengano e basta, opzione questa tra le più gettonate. La meno compromettente, in apparenza la meno dannosa e poi è anche vero che lì per lì, questa profumata lungimiranza non ce l’hai. Dopo la prima scossa, puzzi di sudore e adrenalina.
La prima scossa è quella importante e in ogni caso, non te l’aspetti mai. Con Dan non era ancora finita e non sarebbe finita ancora per molti anni. Solo, in un paio di mesi il nostro vederci passò da quotidiano a settimanale a poco più che casuale.
Io avevo una strana storia-relazione-negazione con il Fosco e Dan si stava trasformando in una vera e propria clandestina. Lo trovava divertente. Si presentava ogni volta con un nome diverso, a scelta tra Ofelia, Cordelia, Emilia e Bianca, in giro sempre senza documenti e una nuova bruciante curiosità per i quartieri tzigani della città. A giugno, quando è scoppiata l’estate, Dan mi ha mandato una lettera come Bianca Blissett, in cui mi salutava. Un foglio interno per quattro righe di saluto strappate da una storia complicata, presa e messa via, sotto formalina e qualche grammo d’astio, ottimo conservante. Diceva che ci saremmo riviste non appena fosse tornata ufficialmente Dan, ma la verità è che non mi aveva perdonato la Fosco-questione, come la chiamavamo noi. Una gran bella questione anche quella, in movimento, piena, da far paura, una questione di priorità. Lui prima di me e prima di tutti. Lui e io. Lui e basta.

Ed ecco che ci siamo, alla pensilina del tram 16, io e lui e quasi non parliamo. Camminiamo e di solito questo aiuta la conversazione, ma non oggi, non stavolta con l’asfalto che quasi ritorna catrame e noi che abbiamo una storia incatramata che non lascia passare niente.
Alla fine è il parco C. la nostra meta, e la raggiungiamo passando per la strada più corta, per arrivare subito dove si deve per fare quello che si deve. E lo so già che non succederà niente quando me ne sarò andata.
E lo sapevo dall’inizio ma continuavo a provarci, e alla fine è stato solo brivido gelido dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa e poi sparato su, tra le fronde verdi del parco.
Se devo essere scaricata in tempo di vacanze, senza dubbio preferisco l’estate. Niente feste, niente nevicate romantiche da guardare stretti stretti dietro i vetri, niente piedi gelati-piedi caldi sotto le coperte. D’estate gli abbracci durano di meno e il sesso è troppo scivoloso e poi quell’estate avevo già deciso di partire da sola.