domenica 5 giugno 2011

Trekking

Credo che lei abbia contratto una malattia, una malattia non del corpo, ma che per il corpo passa…

Carlo Riztki, un bel giorno di maggio – cielo profondo, calore fosco, polvere nell’aria – entra in camera sua a prendere qualcosa dall’armadio e si ritrova tra le mani una busta di carta solito formato. Una lettera. La apre. È scritta a mano e questo lo attrae e respinge all’unisono. Comincia a leggere. Le prime righe sono solo premessa, educazione, nessun nome. Corre con lo guardo alla fine della pagina, scritta fitta.
Firmato Dottor R.
È chiaro, quella lettera non è per lui e se anche lo fosse, la scoperta casuale diventa un’appartenenza d’altro tipo. Senza comprensione, o per lo meno questo penso io, testimone casuale che sta per arrivare a casa di Carlo. Suono alla porta nei quaranta minuti che seguono la scoperta, secondo un calcolo approssimato.
Come ho detto, è mattina, una di quelle che benedici quando arrivano. La notte è stata lunga e monotona come il silenzio. Dal silenzio dilatata.
È mattina e ho passato la notte a pensare che certe volte, la mia vita è come senza senso. Eccessiva, slabbrata in certi punti, rinsecchita in altri, dolcissima in altri ancora. Generalmente troppo grande, gonfia di qualcosa che la rende pesante e mostruosamente grande per ri-abbracciarla e introdurla nel mio piccolo corpo di uomo. Non che la vita mi sia aliena. Mi ricongiungo a lei ogni mattina, solo in un movimento opposto, entrando e non incorporando. Non parlo di interiorizzazione.
Searcing for the space monkey dei Chinese nella testa, acido urbano.
(http://www.youtube.com/watch?v=V8IdYSj2Urs&feature=related).

Le rispondo da medico patologo ma anche da amico, che parla all’amico di una vita. Medico e paziente, compagni di bevute, di letture. Se mantengo la distanza del lei è per sua espressa richiesta, per amicizia appunto, sebbene mi sembri un controsenso. D’altra parte, anche la nostra corrispondenza lo è, una corrispondenza voluta da me, cosicché…
Il telefono di Carlo squilla e lo strappa via dallo strano incipit, come a riemergere da non so dove, o per lo meno così mi è sembrata la sua voce impastata di silenzio, rotto per dirmi un
- pronto? e poi un
- si si, vieni da me… quando riassumo la mia notte e il mio stato con l’insostituibile termine
- una merda.

Carlo l’ho conosciuto in quarta elementare, alla festa del mio compagno di banco Andrea Merla. Aveva dei bei riccioli neri ed era il vicino di casa di Andrea. Anni di biglie e figurine in due.
Il Riztki l’ho conosciuto ancora una volta qualche anno più tardi, barba tenera e riccioli neri.
- ma che hai? aggiunge dopo un colpo di tosse. Rimango sul criptico e ripeto il canone della mia ciclicità:
- una merda.
- ti aspetto conclude e chiudiamo.
Sbuffo. Mi vesto a caso, mi lavo i denti. Esco.
Credo di affondare.
We Carry On (http://www.youtube.com/watch?v=ft8-_W2Jc6M&feature=related) nella testa e asfalto fino alle caviglie. Il sole mi acceca, mi brucia la pelle scoperta. Cammino verso est, verso casa del Riztki e il cemento urbano diventa trasparente.
Comincio ad attraversare i muri per arrivare prima a destinazione. L’asfalto è alle ginocchia. Aspetto di arrivare, che le gambe si fermino dove sanno, esattamente dove devono senza deviazioni, errori, senza più aspettare. Non faccio altro che aspettare e per sei anni ho aspettato tempi migliori, che arrivasse l’estate, la posta, il pusher, che in città arrivassero i turisti o l’apocalisse. Si vive. Si agisce. Si aspetta. Inverto l’ordine ma non cambia niente.
Camminare, aspettare, arrivare, sudare.
Cambio l’ordine. Non cambio niente e alzo il passo. Il Riztki mi aspetta.
Me lo immagino adesso seduto sul bordo del letto con quella lettera in mano anche se ora, in questo presente, non dovrei ancora saperlo, non dovrei vederlo.
Se ne sta lì sul letto, seduto scomodo tra il duro dei bordi di legno e il morbido del materasso, che non si muove perché sta leggendo e vuole capire. Non sa fare due cose allo stesso tempo e adesso legge, adesso vuole solo capire. Continua.

… e non c’è per me amico più caro, della cui buona salute possa e voglia prendermi cura. Tuttavia, già dal suo primo ritorno in patria avevo percepito un cambiamento dubbioso, appena preoccupante. Ho lasciato correre, ho voluto rendere di poco conto quella sensazione leggera, sgradevole, di estraneità. Ho sbagliato caro amico e nei suoi occhi, oramai allargati in una dilatazione permanente, riesco a vedere quanto. Sono un uomo di scienza e tergiversare nella spiritualità non è faccenda che mi competa o interessi, come Lei per altro sa, e molto bene.
Quei versi che ha cercato di spiegarmi e farmi amare, e che io non ho mai compreso né amato, adesso mi tornano in mente come una prognosi, quella che scioglierei per lei, amico mio. Confesso un momento di grande preoccupazione, nell’ora in cui riesco a vedere quella luce “come un oggetto estraneo
e in via di estinzione”.
Forse solo ora inizio a capire, a scorgere la vera materia di quella luce, della quale così spesso mi ha confidato la forza, la potenza contro cui non si può nulla, “un impasto più spesso del metallo e più pesante dell’acqua”.
È iniziato solo ora, non è così? Solo ora la luce “si coagula davvero”.

Riztki si ferma. Cosa gli è capitato tra le mani? Chi scrive, chi legge, di che poesia si tratta?
- era per qualche altro Riztki, mi sembra ovvio.
Siamo in cucina e Carlo mi guarda da sotto in su… mi sembra ovvio e ovvio sarebbe se prima di lui qualche altro Riztki avesse abitato in quell’appartamento.
- io non credo… fa dopo un po’ … non credo proprio.
- e allora come? faccio io senza troppa convinzione.
- eh… che ne so! È chiaro che è stata scritta almeno venti o trent’anni fa, quindi al massimo il Riztki in questione sarà mio nonno, anche se non ho mai saputo niente di speciale sul suo conto. Era un mezzo alcolizzato e quando andavamo a trovarlo con i miei, mi ricordo che certe volte era ubriaco fradicio, incontrollabile! Straparlava, faceva cose strane per me che avevo sette o otto anni… cose da ubriaco chiaro! A me faceva ridere ma i miei non lo trovavano divertente credo. Mi sembravano imbarazzati, come fosse colpa loro se il vecchio dava i numeri!
- non lo so. Non so… è strano… abbasso lo sguardo. L’asfalto è arrivato fino al bacino. Non posso muovermi.
- ma tu invece, che hai?
Alzo gli occhi fino a quelli di Carlo.
Riztki asfalto Riztki asfalto Riztki asfalto. Riztki. Asfalto.
Lacrime.
Il Riztki corre in camera da letto e torna con la lettera. Me la porge come fosse un kleenex.
- guarda. È questa.
L’asfalto mi è sempre sembrato una violenza comoda, una colata bollente di forza nera e utile.
Non so spiegare, non so parlare della betoniera che mi brutalizza i pensieri, non conosco parole che non siano scontate per descrivere ciò che non ha un nome nella mia vita civile, urbana, che ha bisogno di tempo per asciugarsi e farsi solido.
Ho passato la notte a pensare che preferirei morire nel sonno, che l’unica soluzione è andarci giù pesante di sonniferi. Oppure gas.
- non ce la faccio, vorrei dire.
- non è per me. Per uno come me certe volte vivere è troppo. Complicato, doloroso, frantumato. Mi taglio. Ma siamo già al numero tre e Riztki non sa pensare a più di due cose insieme.
- non riesco a dormire dico alla fine, fuori tempo massimo e con la lettera tra le mani.
- una puntina di xanax prima di andare a letto e vai… fidati! Non riesci a dormire? Drogati! Un mezzo sonnifero e la felicità di ore e ore di sonno!
Ride e mi mette una mano sulla spalla. Lo guardo. Apro la bocca per spiegargli nei minimi dettagli la fortuna che ha e quanto meravigliosa sia quella sua maledetta, odiosa semplicità, felicità, la sua dannata pazienza!
- dammi dell’acqua per favore, concludo.
Poi abbasso ancora gli occhi sulla lettera scritta fitta.
Comincio a leggere dalla metà, dalla prima maiuscola che mi capita a tiro.

Ora, senza giri di parole, credo che l’unica soluzione sia riposare. Tornare a casa, respirare profondamente e riposare. Che il riposo è essenziale. Che il riposo è riappacificazione. Mente, corpo, estremità.
Il suo corpo parla e dice molto.
Credo che lei abbia contratto una malattia, una malattia non del corpo ma che per il corpo passa, stremandolo, consumandolo in veglie e smarrimento che le sembrano infiniti. Forse un giorno arriveremo a conoscerne la fine, ma perché questo accada, lei deve tornare qui. Senza incertezze, e soffocando l’ovvio dolore del Ritorno, a dispetto di ciò che sembra un obbligo ingiusto, la medicina è rincasare. In un senso più ampio, più spirituale se preferisce, sono convinto che questo le sembrerà brutale in confronto a quella libertà di cui si inebria lontano da qui. La libertà di essere ciò che desidera, non cosa da poco. Brutale dicevo, violento, ne sono convinto, ma ugualmente credo che quel luogo, quella gente, sia malattia.
Questa città, personificata in “B” nelle sue lettere, la sta consumando.
Sotto quel sole, tra i fili elettrici che squadrano lo spazio e spezzano l’altezza del cielo, tra quei palazzi mostruosi i cui muri, mi dice, sembrano assorbirla, respirando come fossero vivi, mai niente andrà bene. Tutto continuerà a trasformarsi in coercizione, in oppressione e soffocamento. È una infatuazione malsana quella che ha contratto per questa donna di pietre e vetri, una meticcia affascinante. È una malia, un’ossessione sentimentale di strazio e amore non corrisposti che confondono i sensi, i limiti e le misure delle cose.
L’uomo non arriverà mai a vedere con la pelle come dice in suo amato Ioan Es. in quella poesia che, come ho detto, ora comincio a capire e a temere.
Tornare è l’unica soluzione anche se per lei equivale alla morte. Anche se per Lei equivale a un suicidio. E suicidio in realtà è restare.
“B” non esiste come creatura vivente, ma come contenitore di vita e questo deve rimanere. Un posto, un contenitore. È lei l’unica creatura vivente, l’unico uomo nel legame perverso che avete contratto. Il contenuto.
La prego, ritorni a casa dove tutto è familiare.
La imploro, ritorni qui dove ancora molto l’aspetta.

Il Riztki quella mattina non cercava altro che lo zaino da trekking. Io ribadivo mentalmente l’importanza di una morte indolore e inconsapevole contro il vivere impraticabile.
Siamo usciti di casa ad un certo punto, a fare due passi per prendere aria e fuori palazzi, asfalto e cavi elettrici erano esattamente come li avevo lasciati. Vivi.

notturne

17/05

siamo sfuggenti e incastrati in bulbi trasparenti
e infrangibili
riusciamo ancora a toccarci
tu dici, tu credi
il tocco
ci separa la necessità di averlo
si sentirlo e scivolarci dentro
un guizzo su una pagina
e potremmo camminarci su e
lasciare piccoli segni di poca importanza
siamo sfuggenti e siamo incastrati
squadrati sussurrati in un mondo
che in un modo o nell’altro
costringe negli angoli
ci stringe in cordoni
nei tempi affogati di luci e nebbia
fitta sfumata di rosso.
Bucarest
(geometrie anticonvenzionali
a calcolare i nostri perimetri
antisimmetrici
antigeometrici)



19/05

non soffro più la tua assenza
che se fosse presenza
sarebbe riempire un sacco con due bocche
e nessun fondo
non soffro più alcuna assenza
che se ne soffrissi
non avrei più parole
che se le pronunciassi mi
ingoierebbero viva