venerdì 11 novembre 2011

Resa. il giardino sul 13° parallelo

Fronte alta. Pentimento. Occhi bassi.
Avevi le lenti a contatto ieri sera.
Occhi belli.
Il fumo te le seccavano sotto le palpebre, mi sembra. Non facevi altro che stropicciarti gli occhi ieri sera, ad ogni risposta, meccanicamente.
Un tic nervoso, oppure volevi scavarteli fuori dalle orbite.
Io scavo, tu scavi.
Lei scava una bella fossa profonda per buttarci dentro la roba vecchia, anche se di roba ne ha molta, anche se non ha davvero nessun senso sotterrare scarponi sfondati, magliette stinte, quaderni… non viene fuori niente in superficie, lo so io, lo sai tu, ma lei ha deciso che il giardino di casa nuova deve servire anche a questo. Depositarci le cose, restituirle in un certo modo dice. Come se fossero fatte di legno o d’acqua piovana.
Ha anche deciso di coltivarci il basilico e i pomodori.
Vorrebbe un bel giardino, mi ha detto l’altra volta, dopo che l’ho aiutata a finire il trasloco.
Un fatto non trascurabile essere l’unica ad avere la patente.
Un mucchietto di cartoni mezzi aperti. Vestiti, piatti, libri, bicchieri avvolti nella carta velina. Alla fine mi ha ringraziato con spiedini e vino caldo annegato di cannella, una pessima accoppiata.
Dopo cena ha cominciato a svuotare i cartoni, trascinarli e sistemarli senza mai togliersi i tacchi a spillo, inchiodando su e giù per casa la sua voce da lontano, che rimbombava nella mia. L’effetto delle case vuoto. Certi lo chiamano eco.
Vederla così, a calcolare lo spazio per i mobili, a trascinarmi per tutti gli angoli della casa -due stanze, cesso e cucinino in croce, a parlare di tende, colori e arredamento, quella volta me l’ha fatta quasi odiare, e sai che non ci vuole molto.
Che io e lei, a parte te, non abbiamo mai condiviso niente. E poi anche per te, non ti abbiamo avuto nello stesso modo.
E quanto ti amava gesù! Ti amava ancora a ottobre, quando vi siete rivisti, e anch’io ho amato quella sera. Stesso periodo, stesso identico posto, anch’io ti amavo ma tu, cazzo, eri solo capace di chiedermi scusa.
Però non è per dirti questo che ho voluto vederti Ion. Era per Anca e quel suo maledetto giardino. Mi fa pena.
Alla fine sta diventando una merda di cimitero, ci sta sotterrando tutto, perfino la fisarmonica. Io l’avrei tenuta quella, e per inciso - solo la tua ex poteva mettere sottoterra uno strumento musicale! Uno deve stare fuori di testa per sotterrare quasi tutto quello che ha, come una caccia al tesoro in cui non si vince niente.
Alla fine sono cose che qualcuno non ha più voluto.
Messa così in effetti non è tanto assurdo sotterrarle. Per lo meno gli dai un posto. È per questo che ho voluto parlarti, perché credo che tu debba andarci da lei, farti un giro in casa e uscire in giardino. E in giardino dovrai darti da fare Ion, perché quella roba è come se fosse tua. Non che sia roba tua, però ha a che fare con te, ed è meglio se te ne rendi conto, ed è meglio se vai da lei.
Io credo si sia arresa e che quello lì sotto è un bottino. E ora sto per darti una pacca sulla spalla perché hai un gran bel bottino, oltre agli scarponi sfondati!
Lo so, è da non crederci, ed è stupefacente, però questa è una resa.
È per qualcosa che mi ha detto - un contrappasso bestiale, diceva e poi un altro mucchio di sciocchezze sulla prima volta in cui ti ha visto e l’elettricità, l’istinto che non l’ha mai tradita.
Lo sai come sono i discorsi di Anca, e non è che io l’ascoltassi così attentamente o con piacere, intendiamoci!
Solo che, dopo il trasloco mi sono ritrovata il suo mazzo di riserva tra i tappetini dell’auto. L’avrò chiamata cinque o sei volte ma niente. Ero di strada, così ho fatto un salto a restituirle le chiavi.
Mi ha aperto stravolta, sembrava in acido. Stava scavando e sotterrando. E vuoi tirare a indovinare perché non rispondeva? In ogni caso, mi ha fatto un caffé e ce lo siamo bevuto osservando quel campo minato di fosse, ed era strano, pieno di sentimenti come se lì sotto riposassero per davvero delle anime.
E poi si è messa a parlare di te e di tutto quel dolore che non sapeva più dove stipare.
Rifiuto, distanza, chiusura. Questo era l’ordine se non sbaglio oppure forse c’era prima la distanza del rifiuto… in ogni caso, di colpo mi fa
- dimmelo tu, tu che faresti? Lo so, niente di tutto questo probabilmente, però mi va bene lo stesso, anche se sei tu. Tanto di quel dolore da non poterne più. Per tirare a campare che faccio, me lo dici?
A quel punto, senza fiatare, mi sono alzata e sono andata via.
Non l’ho nemmeno guardata. Non so che faccia avesse, che espressione.
Mi sono alzata e fissavo le tombe.
Vorrei saperlo se c’è un altro modo senza tutto questo dolore. Vorrei sapere come arrivarci, con chi parlare per arrivarci, che farlo con me - cercare in me la direzione, è fiato sprecato. Lì c’è solo dolore, certe pietre miliari sporche di piscio e piene d’erba tenera come sulle provinciali. Le strade provinciali del Lazio, ad esempio. Io sto pensando a quelle, anche se è un riferimento che tu non puoi cogliere.
E allora avanti, si cerca di andare avanti e immaginare altri riferimenti, oppure lasciarli perdere completamente, che alla fine sono inutili tutti. Qualcosa di nuovo aspetta la mia nuova vita a Bucarest, che allora diventerà nuova di zecca, fiammante. Sarà per questo che poi in auto sono scoppiata. A piangere sono scoppiata, di paura come un neonato.
Di misura, perché non è ancora passata.
Perché va sempre peggio.
E mi allontano sempre di più. Da me. Da te e poi da tutto il resto.
É per questo che l’ho lasciata lì, perchè non posso capirlo da sola come si fa a non soffrire così tanto. Se lo sapessi, pensi che non lo farei? Se bastasse chiederlo a me, pensi non l’avrei già fatto? Sei pazzo, credi non l’abbia già fatto?
La mia natura non è uno scherzo.

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