Sei sempre nel vortice, che senza forse non sai vivere,
forse proprio non ci sai stare, come fossi tu stessa un vortice di oggetti
casalinghi, come quando ti arrabbi, come adesso, che vorresti stringere le mani
alla gola di qualcuno e fargli uscire le lacrime da tutte le parti, ma non sul
serio.
È una metafora.
Una metafora di soffocamento, di bolle e oggetti casalinghi
strozzati in gola, di te che da quando ti conosco non hai potuto fare a meno di
stupirmi, per confermarmi alla fine che, tutto sommato, le cose vanno come
devono andare. Di corsa, in tutte le direzioni, e sbattono ovunque come dentro
una lavatrice, dentro un vortice e guardano gli effetti di una magnifica forza
inaspettata.
Non è importante che sia distruttiva, perché tu fai tutto
con enorme grazia, disfi tutto con certi movimenti benedetti e pieni di luce, e
non importa se allunghi la mano per prendere, dare o allontanare, perché lo so
che tu appartieni solo a te stessa, che dici di amare la solitudine, ma non sul
serio.
Vorrei piegare il tempo, interferire col passato e
fregarmene delle conseguenze, bruciarmi, tagliarmi, non avere più famiglia, e
tutto questo solo per rivederti allora, quando aprivo la porta di casa e tu eri
lì dietro, con gli occhi spalancati e certe volte con un barattolo stretto in
mano. Poi, non so cos’è successo e i tuoi occhi si sono fatti più taglienti che
rotondi.
Io ho iniziato a collezionare barattoli, anche se tutti mi
prendevano in giro, e poi mercoledì sera, quando è scoppiato il temporale,
Daniela è stata qui.
Anche questa è una metafora, non devi cominciare a muoverti
per forza, non c’è bisogno di occupare nessuno spazio per girarci dentro, è
stata qui ma non sul serio.
L’ho sentita sulle labbra, col collo piegato e gli occhi
chiusi, i capelli lunghi e scuri raccolti su una spalla, a Koln con una camicia
bianca.
La pensilina sotto cui aspetti l’86 non regge la furia
dell’acqua che morde le superfici orizzontali. Tutti si stringono al centro per
sfuggire allo scolo che cade nei buchi, quelli coi contorni irregolari che
svuotano la pensilina di senso. Al centro ci sei tu, tu sola, a parte la tizia
grassa che rimane seduta con le spalle bagnate e la faccia nervosa, da cane,
con le guance cascanti. E così sei di nuovo dentro il mucchio, al centro del
vortice umano, urbano di carne e di ossa, a pensare a me che sento Daniela
sulle labbra e subito dopo aspetto te, aspetto di vederti arrivare piena di
acqua e di notte.
Sono solo le dieci e mezza però il cielo s’è fatto più scuro
che in una notte qualsiasi. L’acqua ha ristretto i vestiti e sbiadito la
santità, la nuvole oscurano il nostro bersaglio verticale, la pioggia l’ha
crepato a furia di batterci sopra, breve ma intensa.
Allora hai alzato gli occhi e ti sei stretta nelle spalle,
le tue, quelle degli altri. Sei uscita sotto l’acqua, da sotto la pensilina,
dal vortice in cui ti sei come risvegliata, come sempre, senza volerlo.
Quello che non va è che non ascoltiamo più molta musica.
Non ce n’è più, né fuori e nemmeno dentro. C’è il temporale,
ma non è durato nemmeno un’ora e in ogni caso, io non me ne sono accorta,
perché mi fischiavano le orecchie e Daniela non la smetteva più di chiedermi
perché. E nemmeno io potevo smettere di farle le stesse domande. Non ha risposto
e nemmeno io ho potuto parlare, perché l’avevo sulle labbra e non c’era spazio
per nessun altro suono che non fosse il suo, quella della sua fronte sul mio
mento e viceversa.
Nei tuoi
vortici ci sono entrata anch’io, sempre muta e con lo sguardo lanciato in alto,
a rimbalzare in tutte le direzioni, prima che sulla porta di casa, dove sei
apparsa tu, inaspettata.
Avevi i sandali in mano, lo smalto alle dita dei piedi.
Hai preso il 79 alla fine e io non me ne sono nemmeno
accorta.
Nessun commento:
Posta un commento