martedì 13 settembre 2011

FoarteCute

Adrian era uno di quelli che ancora parlava di borghesia e passerelle sociali, con una memoria bestiale e mai carta assorbente in casa.
Quando dico carta assorbente parlo di tovaglioli di carta, fazzoletti di carta, carta igienica. Se ti scappava a casa sua te ne assumevi la responsabilità e non perché pulirsi il culo è da borghesi, ma semplicemente ci sono diversi tipi di memoria.
Diceva di aver smesso di bere. E diceva anche che di notte, ogni notte in cui ce ne andiamo a letto a dormire, facciamo un salto nel tempo, una regressione uterina. Niente metafore o porcherie amniotiche come pensavo all’inizio, perché quando Adrian dorme profondamente si rimpicciolisce per davvero. Una ciambella in mezzo al materasso. Un feto in un certo senso.
L’ho guardato dormire per un bel pezzo quella volta, che poi è stata anche una delle ultime in cui mi ha detto che da lui di letti e divani vuoti ce n’erano tanti, neanche fosse stata una reggia quel bivani di Pipera in cui stava, nella zona industriale della città. Avevamo cenato insieme, visto un paio di film, fumato, parlato.
Diceva che da piccolo era stato uno di quei ragazzini innamorati della madre, a cui mancava letteralmente il respiro quando la guardava muoversi, agire, vivere. Un po’ come capitava a me quando mi era accanto, quando eravamo a letto insieme, in silenzio e sincerità. L’ho amato, almeno quella notte a Pipera l’ho amato.
Però non ha mai avuto molta importanza o molto senso, come non ne ha amare uno che quando dorme si arrotola fino a baciarsi la punta del pene e non lo lascia fare a te. E poi non ti lascia nemmeno spazio a letto, il più autoreferenziale possibile. Il più contenuto possibile, uno che ti bacia sulle labbra, con quelle belle labbra rotonde e imbronciate, e poi sparisce per settimane.
Poi a un certo punto sparisci anche tu un paio di settimane, per qualche settimana, in viaggio, e anche a te manca la carta assorbente, un pacchetto di fazzoletti per esempio, più che sufficiente quando ti scappa in treno.
Quello che mi manca è un ponte. Una volta l’ho trovato, un bel ponte alto che all’inizio aveva entrambi i capi invisibili, impossibili da riconoscere fino a quando non l’ho abbandonato per lanciarmi di sotto, il ponte di gesù cristo. Sono ancora qui a raccontarlo, ed è stato un volo, una caduta libera che mi ha sfracellato all’atterraggio. E sono ancora qui.

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Quello che mi manca è un ponte, un bel percorso dritto che mi porti fino a Pipera senza le congestioni stradali di Bucarest, le congestioni stradali che non esistono quando sei in treno, perché in treno c’è Mihai.
Perché in treno c’è l’inesauribile serbatoio umano in cui si affollano le altre vite, vite diverse dalla tua.
Mihai ha trentasette anni, una camicia bianca e una valigetta nera da PC portatile, perfetta per restare dritta in verticale sotto il sedile, dove la lascia subito, appena prende posto di fronte a me, a treno ancora fermo. Vado a Braila e anche Mihai ci va, per 4 ore che sembrano infinite.
Mi dice qualcosa prima di lasciare la valigetta, qualcosa che non capisco. Ha la voce bassa, come rotta, come avesse passato la notte a gridare. Ha quel timbro di voce speciale, grave e impastato. Suadente, attraente. E quando parla sbatte le palpebre a lungo, come a filtrare le informazioni attraverso gli occhi, con gli occhi assicurarsi di aver capito, che ho capito cosa dice. E di cosa ne dice tante, strane, equivoche. Mihai parla come fosse un contrabbandiere (di automobili, pneumatici, alcool, c’è da immaginarsi un mondo sommerso) e allarga il sorriso quando confessa di parlare russo, per le russe e per la Trasnistria, l’arsenale nucleare dell’URSS mummuficata. E quella valigetta che non sposta più dal suolo, incastrata saldamente tra il sedile e il pavimento, che controlla di continuo, discreto, nervoso, senza sudare, come se potessi non rendermene conto. Siamo uno di fronte all’altro e Mihai mi sembra un uomo capace di chiedere scusa con serietà e rispetto. Un tipo losco malato di reni.
Quando scendo è come se non l’avessi mai conosciuto. Sono sola e di notte la stazione di Braila fa paura. Per quanto banale, è terribilmente triste scendere da un treno e ricordare che non ci sarà nessuno ad aspettarti. In ogni caso sono appena le dieci di sera.
È difficile non vuotare il bicchiere con la sete e il vuoto che ho.
La luna stanotte è davvero quell’enorme disco bianco a cui tutta la scrittura umana ha dedicato due parole, nella grandezza piatta dello spazio aperto, delle fronde infinite che allungano il Danubio.
È difficile descrivere le città secondarie sulla strada per Bucarest, con i teatri chiusi, le combinate in disuso, i mazzi di covrigi appesi alle braccia delle madri dietro i passeggini, dietro le falde dei cappelli, calcati in testa ai vecchi che giocano a dama per strada.
Accendo ancora un’altra lucky rossa e tu Adrian, non sei altro che un mucchio di parole, una sconfitta, la forza che ci vuole per l’ennesimo colpo di spugna, di coda, di coccige, sotto una luna grande come non ne ricordo se non in Romania, il posto della maledizione sentimentale, personale, sentimentale.
Una luna enorme dentro il cielo rosa.
I miei sentimenti si fanno umidi prima di sparire, come la filettatura della cartina di cenere che lasci cadere sul fondo umido del piattino da caffè, gonfio di mozziconi. All’inizio non succede niente e poi di colpo, a bagnarsi si fa scura, si prepara a sparire, semplicemente, come cenere bagnata.
Vorrei scrivere di te come scriverebbe un cane, con il muso annodato tra le lenzuola di un letto che non potrò mai chiamare nostro, sniffandoti riga dopo riga, in attenzione.
E questo non è mai stato così vero.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Veramente bellissimo, eccezionale.
Passa a dare un'occhiata alla mia page. :)

clara ha detto...

grazie... passo a dare un'occhiata