domenica 11 luglio 2010

Occhi chiusi. A immaginare il profilo di un movimento che si dischiude,
nell’abbandono del pensiero che si muove,
circolare e ripiegato, del pensiero scritto in forma mentale.
Sono dentro. Fuori di me. Offesa dalla mia banalità.
Rincorro una grammatica dello spirito per anestetizzare l’inquietudine. Una grammatica della parola, il bisogno del semplice dire, il solo bisogno di sfiorare appena la liberta di avere paura.
La liberta della paura.
Liberta del sentirsi soli.

Il limite che non riesco a superare è il mio. Me stessa e non io sola ad averlo costruito,
pezzo su pezzo ancora un pezzo.
Le pause sono bianche, orizzontali, senza speranza. Le pause sono i momenti di immobilismo e pensiero in eccesso. O forse solo aria, il tempo di un respiro, di un sospiro.
Sono come svuotata, e affannata nel cercare la perdita, la punta che apre la strada del nuovo e della perdita che non si ferma mai, che è sempre aperta e più elastica di ieri. La soglia attraverso cui tutto riesce a passare, anche quello che una volta sembrava immenso.
Tutto cambia e gli avanzi di me, le briciole di ciò che non è stato toccato, pian piano, se li portano via i cani Bucarest.

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