venerdì 4 gennaio 2008

Parlami in poesia. Io sono Lucia Mondella

Era seduta a mangiarsi le unghie con gli occhi aperti e sgrassati, asciugati dal colore dei mobili, bloccati nel vuoto dalla calma. Con quali fantasmi si sarebbe confrontata restando lì in salotto a tergiversare? Una risposta per ogni domanda, un movimento di palpebre per ogni risposta. Quanta banalità si è capaci di inghiottire prima di rifiutarla? Quanto tempo prezioso, ancora, da gettar via? 

Lucia lavora e pensa a se stessa. Timbra il cartellino in fabbrica ogni giorno e qualche notte a settimana si rimbocca le maniche nelle prove d’amore da ragazza comune. C’è da infrangere qualche piccola regola sana per Beppe, parlare d’amore e dimostrarlo, contravvenire al catechismo, fabbrica d’amore pulito in cui timbra un altro cartellino.

Lui mi ama. Lui è sensibile… e poi agli uomini le conferme non bastano mai… 

Ma qui non si parla di stupida routine al femminile o di quale sia la priorità fra amarsi ed amare.

È solo folle normalità in una manciata di minuti.

 Lucia è molto stanca la sera, quando lascia la fabbrica e torna a casa. Ha già trent’anni ma vive ancora con i suoi; le è rimasta solo la madre e di suo padre conosce l’assenza. Sua madre Rosa è una donna imbarazzante ed educata, imbavagliata, incattivita. Semplicemente priva di senso dell’umorismo. Porta avanti la casa vuota con grande ambizione e cura, poiché non c’è nessuno che abbia cura di lei. 

Ma non si dica che c’è da torcersi le mani o da strappare qualche lacrima con dettagli di solitudine; qui non si parla di stupida routine femminile poco emancipata su divani ancora coperti di cellophane. 

Rosa è stata una sarta in gioventù. Lucia è un’operaia specializzata, ma madre e figlia non sono affatto l’evoluzione socio-economica dello stesso mestiere. Lucia non ha mai avuto interesse per il cucito; in fabbrica attacca bottoni e lo fa sempre da sola, perché è una giovane donna di quasi bellezza, un po’ sfiorita, un po’ triste, un po’ gelosa. Non ama la compagnia Lucia o, quanto meno, non quella di tutti. Attacca i bottoni tendendo piccole mani piccole e chiare come di madreperla, piene di grazia per chi sia in grado di mostrare gusto per le piccole cose. Non cuce niente e nessuno lei, né tanto meno rammenda: queste sono prerogative di Rosa. Il fine settimana Lucia e Beppe escono insieme, mangiano fuori e lui le fa i complimenti per gonna e borsetta acqua e sapone. 

È strano ma Lucia è piena della meschina felicità delle piccole cose, orgogliosa del suo uomo e del suo mondo affollato da piccoli oggetti di pessimo gusto… non era così? Beppe è un uomo onesto, pensa Lucia, fiera di non superare mai il cordone ombelicale dei suoi anni e delle passeggiate estive fatte al suo fianco. È un uomo affidabile Beppe, senza grilli per la testa, e Lucia crede che, un giorno lui la sposerà, insieme con sua madre e col suo lavoro in fabbrica. Crescere insieme e poi scoprire il gioco delle diversità; è questo l’amore per Lucia. Questo è l’amore, Lucia? Ma questo non è il luogo adatto per certi discorsi, perché qui non si fa proseliti femminile pro matrimonio sereno.

Qui si fanno bottoni. 

Lucia è seduta sul divano e gioca con la sua strana memoria da cane randagio di suoni e odori.

Si, è vero, qui si fanno bottoni, bottoni di qualità, eleganti, quadrati, intarsiati e tutt’intorno è solo un labirinto di alte pareti rumorose che toccano il cielo, il soffitto della fabbrica e le cavità delle sue orecchie.

I versi delle macchine lambiscono Lucia che a stento riesce a capire quella specie di slogan con cui il caporeparto si bagna le labbra e arringa gli operai. Lucia di solito lo ascolta con l’attenzione del sottoposto ed è anche iscritta al sindacato cattolico, anche se non si sa nulla sui bottoni con cui i dodici apostoli tenevano su i calzoni.

Sorride di questa idiozia e non sa come altro giustificarsi Lucia, seduta sul divano un po’ più comodamente di prima. Ripensa a quel giorno, quello della riunione sindacale. Se lo ricorda perché era il compleanno di sua madre, il ventisei di ottobre, e c’era già un freddo invernale da cappotto e bavero alto. Lei è per strada come ogni giorno, e come sempre, entrando in fabbrica per timbrare il cartellino, sfiora i pilastri di cemento all’ingresso. Quella mattina ha freddo e un gran sonno: il cambio di stagione così repentino la inquieta con pensieri strani che non le fanno chiudere occhio, ha spiegato Beppe.

Entra in fabbrica e c’è uno strano movimento: la riunione sindacale che Lucia ha scordato di segnare sul calendario della cucina. Entra e timbra, assonnata e silenziosa. A bocca chiusa si accoccola su una sedia, in un angolo.

Lucia… Lucia!

Mario è entrato nella sua vita così, chiamandola per nome a voce alta e sfiorandole un braccio come per riscaldarla. Ma questo non è il preludio di una storia d’amore e tradimento; qui non ci sono amanti appassionati che scalano mura di cinta, né passioni travolgenti anti-consuetudini di coppia.

 

È l’alba.

Dal parabrezza della sua auto Lucia vede il cielo chiaro infranto da qualche nuvola ancora un po’ notturna. Si sente in colpa per aver fatto mattino anche oggi, come ieri o ieri l’altro. Il pubblico che la osanna per la performance sono baristi, furgoni che non rispettano gli Stop, finestre illuminate al neon, postini che fanno colazione.

Lucia, in quei momenti di prima luce, si sente quasi la depositaria segreta di una vita assente, trasparente per gli altri, fragile come il vetro, invisibile e tagliente. Ha i vestiti e le mani impregnate di Mario, di quell’odore un po’ scuro che le circonda la testa come un’aureola di sensazioni e avanzi di frasi. A volte la vita di Lucia è aspettare Mario e parlare con lui, far l’amore e far la vita, nuova ed inebriante.

A volte il corpo di Mario non esiste più e Lucia, ormai sdraiata sul divano, ha in mente solo il colore dei suoi occhi, il suo profilo, l’avambraccio su cui punta il mento. Mario sono le ore della sua giornata, trascorse o da venire, il binomio in cui non c’è posto per nient’altro. Ma qui non ci occupiamo di ragazze moderne, operaie della vita che si innamorano di tutti e sono iscritte al sindacato. Questa non è una biografia.

Lucia è seduta a mangiarsi le unghie, felicemente affranta dalla vita, consapevolmente sola, unica come non ha mai creduto di poter essere. Ha trent’anni e lavora in fabbrica, vive sola nella casa dove è cresciuta e dei suoi genitori conosce solo l’assenza. Ha un fidanzato che ama, compagno perfetto per ogni occasione; ha un amante ed ama anche lui, compagno ideale di un mondo che ha solo due stagioni, due città, due posti a tavola.

Ha piccole mani come di madreperla, mani assassine.

Lucia attacca un altro bottone e sospira.

Click.

 

 

 

 

 

 

6 commenti:

vinci ha detto...

Brava, idee interessanti...continua...proverò a seguirti

vinci ha detto...

Mi piace in questo periodo scoprire il reale che si mescola con l'allegorico. sto facendo un piccolo e personale studio sulle allegorie maschili e femminili nei primi canti di dante e chissà perchè mi hai dato qualche spunto interessante, senza mai citare dante...

Michele ha detto...

Beh, io ho avuto l'onore di assistere ad una lettura dal vivo di questo racconto ad opera dell'autrice...

kabalino ha detto...

beh, complimenti...:)

Michele ha detto...

Beh, altri racconti in cantiere?

Okram ha detto...

Clara... innanzi tutto ti ringrazio per quello che scrivi.
che non è un di più.
poi vorrei dirti che è davvero incredibile il modo in cui riesci a spiegare le immagini e le idee che hai nella testa attraverso la scrittura. la scrittura, sembra quasi essere un prolungamento di te stessa.

è bellissimo viverti quanto leggerti.

Marco